Alfredino ‘o nazzista

Chi mi conosce sa quanto detesto i racconti. Però, durante il lockdown, ho scritto questo: l’ho fatto per evitare che quel veleno da clausura andasse a impregnare il mio nuovo romanzo. E anche perché non mi voglio scordare il clima di terrore instaurato non tanto dalla malattia, quanto dalla gestione sconsiderata di un manipolo di imbecilli. E per ricordare a me stesso chi ci rimette -sempre- quando succedono queste cose.

 

“Alfredi’, annonna, metti un poco il giornale radio che voglio vedere il fatto del virus di oggi, per cortesia”. Alfredino, detto ‘o nazzista (ma che nazista non era) per via di una serie di circostanze che non staremo qui a illustrare, obbedì, senza star lì a spiegare per l’ennesima volta la differenza tra giornale radio, telegiornale e conferenza stampa: nonna non ci stava più con la testa da un po’, anche se aveva smesso di cercare di capire il nuovo millennio da molto prima di scimunirsi. Le piaceva il secolo in cui era nata, cresciuta e invecchiata, e non intendeva concedere opportunità al nuovo. Non che avesse torto, pensava confusamente Alfredino, che a modo suo aveva in qualche maniera afferrato il concetto. Il televisore della cucina rimandava una serie infinita di pubblicità in cui gente ben vestita e ben pasciuta, con denti bellissimi e bianchissimi, in case bellissime che Alfredino non aveva mai visto in vita sua, lo invitava a non uscire. Per il suo bene, specificavano sorridenti.

“E addo’ aggia i’?”, dove vuoi che vada, rispose stanco a una signora bella che gli sorrideva dalla tv. Si aggiustò il pacco nella tuta di acetato e sbuffò. La spesa la aveva fatta, e potevano tirare avanti ancora qualche giorno. Almeno tre, sperava.  Non era neanche una questione di soldi: certo, lui aveva smesso di guadagnarsi la venti trenta euro della giornata coi piccoli traslochi che riusciva a fare, ma stava ancora la pensione di nonna, che male non era, tanto più che adesso manco una Ceres al bar si poteva andare a pigliare, e bere da solo non gli era mai piaciuto, gli aveva sempre messo tristezza, con i compagni era un’altra cosa, era divertente sfottersi, darsi reciprocamente del ricchione e commentare a bassa voce le gesta delle ragazze che passavano. Con Luciano Vitiello per un po’ si erano anche sentiti al telefono, ma dopo due giorni avevano smesso; che stai facendo, Lucia’? Niente, mi sto cacando il cazzo. E tu?, rispondeva Luciano, e lui, ah pure io, assai, e finita la telefonata. Non voleva uscire. Non ne aveva voglia. Due settimane prima, all’inizio della quarantena, era stato fermato da un vigile che gli aveva chiesto l’autocertificazione. Lui non l’aveva. E che ci voleva a stamparsela a casa? Io la stampante non la tengo, aveva detto. Ah mo’ tutti con la scusa che tenete la stampante scassata state eh?, aveva detto il vigile, alzando la voce, e lui si era mortificato e aveva risposto ma io veramente la stampante non è che si è rotta, è che non la tengo proprio, e allora il vigile si era messo a strillare come a un pazzo che lui si era scocciato di stare appresso alla gente come a lui che se ne andava in giro, e che se ne tornasse a casa e facesse pure ampress’. E Alfredino si era mortificato perché la gente lo stava fissando per via del vigile che strillava e lo guardavano brutto, come se avesse fatto qualche cosa di male. E gli era passato il genio di uscire, per quella mortificazione inutile. Però lo doveva fare, perché aveva sentito un medico alla televisione che diceva che le mascherine erano obbligatorie, anche sa un altro aveva detto che non erano obbligatorie, però lui sapeva, lo sapeva proprio geneticamente, che lui era meglio che se la procurava, una mascherina, se non voleva avere fastidi dalle guardie: era di loro che aveva paura, mica del virus. Che gliene doveva fottere a lui del virus. Era per nonna. Otto giorni prima si era messo in caccia di mascherine, ma erano finite dappertutto, tranne da uno che gli aveva chiesto quindici euro. Se se, come no. Gli era venuto in soccorso un amico suo, Totonno, che gliene aveva lasciata una nella cassetta delle lettere sfidando l’autorità costituita, e così aveva risolto. Ricordatevi sempre che la mascherina è monouso, va cambiata ogni volta, se no vi pigliate il virus, ammonì uno dalla televisione. E sai quanto me ne fotte a me del virus, disse a quello della televisione, che spiegava dettagliatamente che l’Inps stava mandando seicento euro a tutti ma a lui no, si era informato, ma senza convinzione, se una cosa gli era chiara, gli era sempre stata chiara, era che a lui non spettava niente e mai niente gli sarebbe spettato, nella vita ci vuole mazzo, e lui il mazzo non lo aveva mai avuto.

Represse un colpo di tosse per non svegliare la nonna che si era appisolata, ma gliene venne subito un altro e poi un altro e dovette andare in corridoio per non svegliarla. Si tolse il termometro. Trentotto e tre, sempre quello, da una settimana, e la tosse non se ne andava, e gli faceva male tutto. Tossì di nuovo e ancora e ancora. Si asciugò il naso. Credeva che gli colasse, ma erano solo lacrime. Aprì la porta, in silenzio.

“Afammocc’”, disse ad alta voce, “io esco”.



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