E’ morto Troisi.

Sapeva essere cattivo come Peppino, subdolo come Eduardo, fisico come Totò, spalla come D’Alessio e Taranto, ma era unico. Non era mai banale, anche quando chiacchierava con Pippo Baudo, il boia dell’intelligenza. Era credibile con la maglietta e in giacca e cravatta, perché non recitava mai. Lui era e basta. Ha scritto cose fantastiche, ha fatto film indimenticabili e anche mezze porcherie (come Eduardo, si sentiva lusingato quando lo invitavano nei salotti buoni, e non sapeva che il salotto buono era lui). Poi, un giorno, se n’è andato. E lì è finito tutto.

Da allora, più niente. A parte De Crescenzo, che si è fatto vecchio e giustamente tiene i conti suoi da regolare.

E a me girano le palle. Non perché è morto Troisi: quello ci sta. Non è giusto, ovviamente, ma ci sta. Mi girano le palle perché è stato sostituito da un esercito di buoni a un cazzo. Di battutisti da pasquetta che contano sulla complicità di un pubblico mezzo mbriaco e ben disposto. Di spiritosi da aperitivo precoce. Da quando è morto Troisi, Napoli è diventata una macchietta. Un esercito di degustatori di caffè a manto di monaco, di amanti del pummarulillo del piennolo, di schifatori del San Marzano e della pizza senza pedigree, che poi si fa complice dei peggiori cialtroncelli da checcefregamaccheccemporta.

E quindi penso che è meglio così. Che quelli buoni, alla fine, non solo sanno campare, ma sanno pure quando se ne devono andare.

Per non restare in mezzo alla mazzamma.



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