I foderi combattono e le spade stanno appese.

Qualche anno fa ho scritto questo libro che si chiama Degenerati, nel quale cerco di capire perché la nostra società si sia rincoglionita al punto che i foderi combattono e le spade stanno appese. Beh, da allora -e non è che siano passati decenni- le cose sono andate peggiorando come solo le cose che peggiorano sanno fare. E siccome che avere ragione e fare i signori, quando comandano i piecori, significa essere complici, vi regalo il primo capitolo. Fatene buon uso.

Non so se siete amanti. Di qualcosa, voglio dire. Come quelli che fanno i gruppi su Facebook, amanti degli alberi, innamorati del tofu, pazzi per le olive in senso metafisico. Ci sono eh, sti tipi, mica no. Decidono che sono pazzi per qualcosa e impazziscono, letteralmente. Si fanno la loro piccola Disneyland privata sul social network e non smettono più. Cominciano ad aggiungere amici su amici, discutono animatamente delle loro passioni, poi, quando l’off topic comincia a diventare la regola, il gruppo diventa segreto. E per off topic, ovviamente, intendiamo parlar male di qualcuno, altrimenti non si capisce la ragione della segretezza, se escludiamo rapine, attentati e tentativi di conquistare il mondo tramite complotti di ogni sorta.

Una volta non era così. Non lo dico per rimpiangere le cose passate: lo dico per capire, giuro. Per rendermi conto di quale sia la direzione che abbiamo preso, qual la strada che stiamo facendo, e soprattutto dove ci può portare se continuiamo. Dicevo, una volta, non era così. Se provavate a definire pazzo un appassionato quello vi metteva le mani in faccia. C’era una certa dignità nelle passioni, qualcosa che non voleva, letteralmente non voleva, avere a che fare con una cosa instabile e incontrollabile come la pazzia. Al contrario, una passione spesso significava competenza, accuratezza: al limiti della pazzia, ma della pazzia maniacale, che è piuttosto qualcosa di metodico, di estremamente razionale. E soprattutto, che abbisogna di competenza. Estrema competenza.

Prendete una cosa come il modellismo. C’era una volta, chissà se c’ancora, ma una volta c’era eccome. Il modellista si rintanava negli appositi ritrovi dei modellisti, detti negozi di modellismo, o, per i veri modellisti, addo’. Dove addo’ stava per da, e in genere era seguito dal nome del proprietario. Addo’ Giancarlo (i proprietari dei negozi avevano sempre un nome composto, dio solo sa perché), addò Pierangelo. Per te era il negozio, per loro, e solo per loro, era addo’. Indicava l’appartenenza a un club esclusivo di cui non tutti potevano far parte. A differenza di quanto succede oggi, anzi, meno si era e meglio si stava. L’atteggiamento dell’appassionato non era inclusivo, era anzi escludente. Non ti ci volevano proprio, tra di loro, e se tu volevi a tutti i costi far parte del gruppo, beh, te lo dovevi guadagnare. E per guadagnare intendo sudare. Per dire, entrare nel Rotary era molto più facile. Bastavano un po’ di soldi e un amico che fosse già membro, ed eccoti nel prestigioso Rotary Club. Se invece entravi addo’ Giancarlo lo trovavi che confabulava con due o te amici (barra clienti barra complici) e ti guardavano come un ebreo che avesse interrotto una riunione della Gestapo. Tu ti aspettavi che Giancarlo (addo’) ti rivolgesse la parola, ma lui no, restava zitto e immobile come una statua di sale a guardarti con disprezzo, mentre gli amici barra complici barra clienti guardavano prima te poi lui poi di nuovo te e ridacchiavano, come a dire guarda sto stronzo.

Non ti ci volevano, tra loro. Semplicemente, non ti ci volevano.

Non volevano te e non volevano nessun altro, ma in quel preciso momento non volevano te. Qualsiasi cosa chiedessi, dei soldatini, un modellino di carrarmato, un sommergibile a grandezza naturale che avrebbe sistemato Giancarlo per il resto della sua vita, loro si mettevano a ridere e cominciavano a bulliarti, punto e basta. Perché non erano interessati. Non gli interessavi tu, non gli interessava la gente e anzi avevano capito una cosa fondamentale: che la gente è il male assoluto, e quando la gente comincia a riunirsi succedono casini difficilmente aggiustabili con la colla dei modellini.

E l’avevano capito perché non erano pazzi per qualcosa, come si dice adesso: erano competenti in qualcosa. La sapevano fare. E avevano disprezzo per quelli che non erano come loro. Dovete capire una cosa, però: facevano bene. Avevano ragione. La loro passione era una somma, appunto, di competenze che avevano acquisito nel corso degli anni, con enorme dispendio del loro poco tempo libero (all’epoca parecchia gente, non ci crederete, lavorava), insomma sulla loro passione quella gente ci aveva buttato sangue e veleno, e non è che potevi arrivare tu, comprare un trenino o una macchinina e dire ah adesso io e te siamo uguali. Perché potevi anche spendere venti milioni, ma loro non ti volevano comunque. Non era questione di soldi, tutto qui. Non che i soldi non fossero importanti: i soldi sono sempre stati, ovunque, la cosa più importante.

Solo che non lo erano sempre.

La differenza è tutta qui. Sembra una cazzata e invece non lo è. Amate vostra moglie e i vostri figli più della vostra stessa vita: e va bene, fin qui ci siamo. Ma esistono momenti in cui, onestamente, non è in cima ai vostri pensieri. Non è che se vi viene una colica renale pensate ah che bella la mia famiglia, quanto mi mancano i miei affetti. No, volete un sedativo, si fotta la famiglia. Le cose importanti restano importanti, ma non è che state sempre lì a pensare a loro. Esiste l’urgente, ed esiste anche l’altro, di importante, in cui le cose più importanti ancora, come è giusto che sia, in quel preciso momento, non contano un cazzo di niente.

Così, una volta, era per i soldi.

Contavano, ma quando ce n’era bisogno. Non sempre e comunque. Non in ogni singolo momento della giornata, cazzo. Non entravano nella competenza. Non bastavano i soldi per fare di te uno della cricca di addo’ Giancarlo, anzi. Una volta, per esempio, c’era la musica, e l’abitudine di ascoltarla tramite un apparecchio apposito, detto impianto stereo. Era il sogno di tutti, possedere un impianto stereo per sentire la musica (solo i ricchioni dicevano ascoltare la musica). Sfortunatamente, non era cosa alla portata di tutti, possedere un buon impianto. Uno discreto sì, uno così così pure, ma uno stereo davvero buono costava una piccola fortuna e potevano permetterselo soltanto figli di feudatari o cardinali. Tuttavia, possedere un impianto di alta fedeltà non faceva di te un competente.

Quello che ne capiva era un’altra cosa.

Magari aveva anche lui l’impianto stereo esoterico, frutto di economie decennali, e curava di più la testina del suo giradischi di quanto non facesse con la vecchia madre malata (con la quale pensione era stato acquistato l’impianto), ma non era questo a fare di lui quello che ne capiva.

Certo, in genere era un cialtrone senza arte né parte, preferibilmente disoccupato, che aveva una puzza al naso talmente irritante che faceva venir voglia di prenderlo a cazzotti in faccia (cosa che in effetti, periodicamente, finiva per succedere), ma il fatto è che lui, di musica, ne capiva veramente. Magari, appunto, era un cialtrone con gusti orrendi, ma se volevi sapere qual’era stato il primo pianoforte suonato da Keith Emerson, lui lo sapeva. La formazione che aveva inciso Olé di Coltrane? Lui la sapeva, ed era in grado di dirti cosa avevano mangiato a colazione i musicisti prima di entrare in studio. Spesso interveniva in discussioni che si svolgevano a qualche metro da lui, ai tavolini del bar, semplicemente increspando le labbra o alzando di un millimetro il sopracciglio. A quel punto, intorno a quelli che stavano discutendo si faceva il vuoto e tutti si bloccavano come facevano anni prima giocando a unduetrestella. Cosa avrebbe fatto l’esperto? Sarebbe intervenuto per prendere le parti dell’uno o dell’altro? O, come succedeva più spesso, avrebbe dato torto a tutti e due i contendenti?

Nessuno sapeva. Non tanto quello che avrebbe detto (in fin dei conti era lui, l’esperto). Il problema era: avrebbe parlato o no. Erano tempi manichei. Non si stava lì a sottilizzare più di tanto. L’eventualità che l’esperto non aprisse bocca c’era eccome. Dice: ma aveva increspato le labbra in chiaro segno di disgusto! Certo, ma poteva anche preludere a una schifata strafottenza. Il fatto è che parlare con qualcuno della cosa che lui amava era, in sé, una cosa impegnativa. Era come raccontare un tuo fatto privato, di quelli che sapeva solo il tuo migliore amico. Ci voleva, anche perché lui si degnasse di darti torto (con tanto di spiegazione enciclopedica e prove inoppugnabili), che lui ti considerasse non un suo pari, ma almeno uno in grado di capire dove, come e perché stava sbagliando. Se non eri almeno uno così, eri una scimmia. E lui non parlava con le scimmie.

 Nessuno parlava con le scimmie.

  L’idea era che le scimmie dovessero parlare solo tra di loro, e che dovessero farlo altrove. Si poteva essere brutti, calvi, sfigati e vergini: tutto questo a trenta e passa anni. Era consentito, tollerato e ammesso. Quello che non era ammesso era essere una scimmia. Uno che addo’ Giancarlo non sapesse in che anno erano state apportate le prime modifiche a un Fokker Dr.I, era una scimmia. Uno che ignorasse in quale anno era stato pubblicato il primo disco dei Deep Purple, era una scimmia. E nessuno voleva parlare con le scimmie. Era comprensibile non avere la ragazza, in fin dei conti le ragazze non capivano un cazzo di rock, non sapevano niente del barone Von Richthofen. Era addirittura ovvio non avere soldi, in fin dei conti chi ne aveva, ma non era consentito essere una scimmia. Chiunque, nel bar, anche il più sfigato degli sfigati, era un’autorità in qualcosa. Uno disegnava da dio, un altro sapeva tirarti fuori una moto da corsa da un corsarino semplicemente armeggiando cinque minuti col carburatore, un altro ancora partiva per la pesca con un amo e una lenza di cotone e tornava con tre tonnellate di tonno fresco.

Nessuno voleva parlare con le scimmie e nessuno voleva essere una scimmia.

E invece hanno vinto loro.

Nessuno sa come. Come nel film del pianeta delle scimmie, a un certo punto, senza saper leggere né scrivere, ci siamo trovati di fronte alla statua della libertà e non ci è rimasto niente da dire se no: oh, cazzo. Ci siamo addormentati per un tempo che ci è sembrato brevissimo, e al risveglio ci siamo accorti che ci sono scimmie, scimmie dappertutto. E quelli che non sono scimmie, vogliono ardentemente diventare scimmie. Si vestono come loro, si grattano come loro, camminano incerte come loro sull’asfalto della civilizzazione, perché non lo riconoscono come loro. Bramano gli alberi, ma non per la libertà, solo per sprezzo della competenza che serve a a costruire una casa, fosse anche una baracca. Loro non sanno costruire una baracca, quindi distruggono quelle che incontrano, e diffidano di quelli che sanno tirarne su una.

E’ successo come quando sei su Facebook, che dici dai fammi vedere il profilo della mia ex, cinque minuti e poi mi rimetto a scrivere e poi quando chiudi il browser ti rendi conto che sono passate sei ore e ti tocca fare la nottata per recuperare. Solo che adesso la notte nella quale ci siamo ritrovati è troppo buia e troppo lunga, e creature schifose si nascondono nel buio.

E hanno mangiato Giancarlo, quello del negozio di modellini.

Cioè, non proprio mangiato, non gli è andata così bene, no. Il negozio ha chiuso, e non come una volta che tutti si lamentavano ah guarda, un altro negozio storico che chiude, ci apriranno l’ennesima jeanseria. No, hanno chiuso anche i negozi di jeans, e il magazzino di Giancarlo è abbandonato, e anche il cartello AFFITTASI è ormai scolorito. Nessuno sostituirà nessuno, nessuno rimpiazzerà più nessuno. E’ il niente che avanza. Ma non il niente nel senso di vuoto: questo è un niente ingombrante, sporco, rumoroso. Ha massa, odore e sapore, e sa di tutto quello che non volevamo mai succedesse. Eppure qui, in ginocchio di fronte alle macerie della statua della libertà, stiamo ancora a chiederci come mai è successo, come è potuto succedere. E invece lo sappiamo benissimo, come è potuto succedere: siamo stati troppo tempo su Facebook e hanno vinto loro mentre ci guardavamo l’un l’altro, e nemmeno per conoscerci, no. Solo per ritrovare pezzi di noi nelle storie altrui. Ci siamo convinti di essere interessanti e intanto il niente avanzava, e dietro di lui, le scimmie.

E adesso comandano loro, legittimati da un supporto popolare mai visto. Se improvvisamente decidessero di abdicare e mollare il potere, probabilmente glielo impediremmo con ogni mezzo, perché vivere come scimmie ci piace troppo.

Anzi, nemmeno scimmie: neoscimmie, uomini degenerati, con i difetti dell’una e dell’altra specie.



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