On Writing: Tony Tammaro.
Chi ha la bontà di seguirmi sa che detesto il termine pop. O meglio, detesto il termine pop come viene usato oggi e soprattutto detesto chi lo usa col pretesto di far passare sotto l’ombrello della vera cultura pop ogni sorta di cretinaggine raffazzonata. Hai dei gusti schifosi? Sei pop. Guardi ogni genere di film di serie B e sei convinto che siano meglio di quelli di Kurosawa? Allora sei pop. Ma anche: vuoi denigrare qualcosa che, anche se non ne parlano su Micromega, possiede un suo indiscutibile valore culturale? Beh, allora lo prendi e lo chiami pop. Un gran calderone nel quale i fessi nobilitano i loro gusti orrendi e, allo stesso tempo, cercano di sminuire la gente davvero brava. Sembra una fesseria, un vezzo intellettuale, ma se ci pensate bene è stato proprio questo che continuiamo, colpevolmente, a considerare un vezzo, a confinare nell’ambito del pop autori che avrebbero meritato una vera ribalta nazionale. Con questo non voglio dire Tony Tammaro una ribalta nazionale non ce l’abbia. Ce l’ha eccome. E se la merita. E se ne sto parlando qui, è perché penso che le sue canzoni e i suoi show abbiano un vero valore letterario, e che possano insegnarci molto.
Anzi, moltissimo. Perché Tony (mi permetterà la confidenza, per me è come uno di famiglia) è tutt’altro che un autore dialettale; è invece un autore che usa anche il dialetto. E’ come avere una marcia in più, non una in meno. Significa arricchire un vocabolario che lui usa per fare quello che molti intellettuali hanno smesso di fare da decenni: raccontare l’Italia com’è veramente, e non come si vuole credere che sia. Il suo sguardo d’autore, perché qui di un autore stiamo parlando, sembra benevolo e compiacente, ma invece è soltanto empatico. Lui non giudica mai, si limita a raccontare, ma con una voce mai indulgente, mai complice. Fai schifo? E lui lo racconta. Che lo faccia con garbo e col sorriso sulle labbra è semmai una questione di stile. Quello che ci interessa è la sua capacità di cogliere delle istantanee del mondo che lo circonda: delle Polaroid che le guardi dopo vent’anni e dici: cazzo, eravamo davvero così, come succede quando guardi, che so, le case in bianco e nero dei film di Monicelli. Che lui racconti Napoli, o la provincia, o la Campania, non è importante; o meglio, è importante nella misura in cui lo era Roma per Pasolini. Il dove, quando sai scrivere, non conta, conta solo quello che dici. In Si’ piglio ‘o posto, ci piaccia o no, c’è tutta l’Italia di anni fa: la disoccupazione, i rapporti familiari, il matrimonio. Una vita che dipende dal lavoro, dalla fatica, anzi, dal posto, come dicevano i Gufi, altri bravissimi che usavano anche il dialetto, quando gli serviva ad ampliare il discorso e (si sappia, non fa male, eh) farsi anche due risate. E in Patrizia e in Il rock dei tamarri c’è un tipo umano, il tamarro, che oggi è assolutamente indistinguibile dal trader di successo e dal direttore di banca: se li guardate tutti insieme, appunto, sulla spiaggia a spiare il culo di Patrizia, non riuscite a distinguere gli uni dagli altri. Ma è perché sono diventati tutti come i tamarri di Tony. E’ che lui se n’era accorto prima.
Tony Tammaro fa quello che dovremmo riuscire a fare anche noi, quando scriviamo: cogliere il nocciolo. E’ una cosa che gli riesce bene, perché lui non ha libri o articoli per esprimere quello che pensa: è confinato nei pochi minuti della pop song (adesso sì), e non può sbagliare. E infatti non sbaglia: come quando ci fa ridere sul consumismo applicato alla Smart. O quando ridicolizza le Chat line, con il suo utente finale in mutanda color mutanda; o anche quando sfotte le mode lanciate dai settimanali in vena di scandali (Hai letto Panorama? Oggi così si ama!), con Ciakkami. Quella di Tony Tammaro non è nemmeno satira: gli manca totalmente la cattiveria, anche perché a lui la sua gente, sostanzialmente, piace. Noi, suoi fans, siamo anche come ci descrive lui, e ci piace anche per questo, perché non ci giudica. La forza del suo racconto, senza l’acredine tipica della satira, non è quella consolatoria del siamo tutti napoletani sfruttati dai Savoia, no. Lui ci racconta come siamo, ossessionati dalle corna nostre e da quelle della signora Gargiulo; sempre pronti a ridicolizzarci in vacanza pur di ballare con l’animatrice che viene da Monza, e si sa che noi del Sud ci intimidiamo subito quando sentiamo uno con l’accento del Nord, come se il dialetto lombardo non fosse, appunto, un dialetto, come il nostro. Non sarebbe male, quando scriviamo, perdere un po’ di spocchia e adottare, almeno una volta a pagina, uno sguardo alla Tammaro, assolutamente privo di morale (nel senso tutto italiano del tentativo di ricavare da ogni-singola-cosa un insegnamento di sapore parabolistico), e, perché no, provare non dico a far ridere, ma almeno a non ammorbare la vita a chi ci legge.
Non so voi, ma io trovo sempre il tempo per essere grato a chi non mi appesantisce la vita, e non mi scassa il cazzo.
Le ultime parole fumose