Descrivere un arco.

Qualche tempo fa ho pubblicato su questo blog poche righe tratte dal mio libro (esce a marzo) La nobile arte di misurarsi la palla; è un romanzo satirico ambientato in una scuola di scrittura. Ora, ci tengo a precisare di non aver mai frequentato una di queste scuole, non sapere assolutamente nulla di come funzionano, di non aver mai neanche visitato uno dei loro siti. Questo, come capirete, mi ha lasciato campo libero nell’immaginare e descrivere un ambiente frequentato da cretini e dove insegnano dei perfetti idioti. Ripeto, non so assolutamente nulla di nessuna scuola di scrittura: il nulla più totale. Anzi, confesso: conosco una ragazza che l’ha frequentata e adesso addirittura ci collabora, e si tratta di una persona garbata, colta e intelligente (stiamo addirittura lavorando a un progetto insieme, e magari fossero tutti come lei), ma insomma, nel libro mi sono praticamente inventato tutto. Solo che. Stamattina (vedi jpeg a sinistra) mi scrive il mio amicissimo Alessio segnalandomi che De Cataldo ha parlato dell’arco. Cosa è L’ARCO ve lo spiego nel brano che segue, tratto dal libro e che ho anticipato su questo blog circa sei mesi fa:

 

Mi accorgo di star divagando, e mi accorgo con piacere che almeno la sola cosa che ho imparato la sto mettendo in pratica col pilota automatico: vale a dire, fare sempre l’Esatto Contrario di quello che mi ha insegnato La Scuola. Non si deve divagare, mai. Ogni personaggio deve avere il suo ruolo, deve percorrere una sua strada, e la sua storia deve descrivere un arco.

Descrivere un arco.

No, dico, un arco. Questi dicevano queste cazzate belluine e noi, zitti, ad annuire e prendere appunti. Che poi questa storia dell’arco è curiosa, se ci penso, perché proprio l’altro giorno, in una maratona dei Soprano (feticcio intoccabile degli insegnanti de La Scuola) ho visto un episodio in cui uno dei gangsters, che vuole diventare sceneggiatore cinematografico, spiega alla sua fidanzata che a scuola di scrittura gli avevano detto che ogni storia di ogni personaggio deve descrivere un arco. Ora, è possibile che questa cosa dell’arco stia in ogni singolo manuale di sceneggiatura dal medioevo in poi, ma per come la vedo io, è molto più probabile che quelle bestie analfabete l’abbiano copiata dai Soprano (o dai Sopranos, loro usavano sempre i titoli inglesi), in uno dei loro impeti d’irrefrenabile cretineria.

Lo riporto senza paura (ho il terrore delle querele) perché non vedo come potrei essere colpevole di qualcosa: innanzitutto, come vedete, il post è di giugno e De Cataldo ha nominato l’arco solo ieri sera, poi perché, a differenza del mio libro, non ha detto che i personaggi debbano descrivere un arco. Ciò non toglie che grande è la mia soddisfazione sotto al cielo, sebbene in certe cose sia facile azzeccarci.

Mi stupisco che qualche imbroglione non abbia ancora pensato di aprire una scuola di scrittura, scriveva Cravan. Solo che lui lo diceva nel 1914.



12 Commenti

  1. mp

    non è una jpeg, è una gif. 

  2. carlo

    a marzo?!
    A MAAAAARZOOO?!

    :(

  3. rasierestanco

    Calma calma, non è successo nulla.

    La “teoria dell’arco” è davvero in tutti i manuali di sceneggiatura, non dal medioevo ma forse dagli anni ’90 (anni bui anche quelli).

    Tiè: http://www.nycastings.com/dmxreadyv2/blogmanager/v3_blogmanager.asp?post=dara-marks-3

    E’ una delle teorie ammericane utilizzate per codificare il “modello hollywoodiano”, ovvero il tipo di storia che studios e network vogliono. In soldoni alla fine del film (o della stagione, nel caso delle serie tv) il personaggio principale deve “cambiare” ovvero risolvere il problema (spesso interno) che lo blocca all’inizio della storia. Se il personaggio non cambia significa che la storia raccontata non è significativa né per lui né per lo spettatore. Quindi gli studios difficilmente se la comprano.

    In USA se ne parla da molti anni e da un po’ se ne parla anche in Italia (in pratica dalla pubblicaIone del libro di Dara Marks) quindi di nulla di strano che si citi l’arco in Masterpiece o che Amlo lo utilizzi nel suo libro.
    Anzi, avendo letto l’estratto ai tempi l’avevo considerata una simpatica presa per il culo di insegnanti che citano a pappagallo i manuali USA ma evidentemente non era così, almeno non volontariamente.

    E, caro Amlo, perdonami ma ammettere di non sapere nulla delle scuole di scrittura dopo averle messe in un libro è una puttanata. O una provocazione. Perché non posso credere che offri così il culo agli attacchi dei detrattori.
    La teoria dell’arco esiste, quindi è normale che se ne parli in discorsi ‘tecnici’, in Masterpiece o nei Soprano (dove si fa dell’ironia sul fatto che ormai chiunque legga un manuale si sente un sceneggiatore, mafiosi compresi).
    Quindi non facciamo i tamarri che sfottono e ridono solo perché non conoscono una cosa che nel resto del mondo è considerata normale. E per mondo intendo quello delle scuole di scrittura, cioè quello che hai descritto – mi sembra di capire – nel tuo libro e che senza dubbi merita di essere smerdiato.

    • amlo

      ma certo che c’è, eccome. era la coincidenza che mi faecva ridere. e non so effettivamente niente: il mio libro, come vedrai, è un romanzo, non un attacco alle scuole di scrittura. meno ne so, meglio è.

  4. BG

    Scusate ma secondo me l’esistenza stessa di cose tipo “scuola di scrittura” è un abominio. Per saper scrivere basta (dovrebbe bastare se non fosse ridotta ad uno stato pietoso, almeno) la scuola dell’obbligo per imparare la grammatica. E poi ci vuole il talento. E se manca quest’ultimo, nessuna scuola di stile può sopperire.
    Sempre che si intenda comunicare qualcosa, e non si voglia invece semplicemente tentare il colpaccio spillando i fantomatici contributi artistici statali…

  5. Carlo

    Esprimo un mio personalissimo parere: nel campo dell’arte (e suppongo siamo tutti d’accordo che la letteratura rientri nell’arte) scuole NON possono esistere. O ce l’hai o no, il dono. Come le dimensioni del pene: o ce l’hai lungo come Rocco Siffredi o, se non ce l’hai, puoi frequentare qualsiasi scuola vuoi, non ti verrà mai lungo così (l’esempio è voluto e calzante).

  6. ramo

    amlè, torna. dove sei?